Autunno nelle Langhe: colori e profumi.

Una idea dei colori si ricava dalle fotografie, mentre per ora sfortunatamente non è possibile farsi una idea dei profumi anche se quello del tartufo (trifula in dialetto piemontese)) è molto forte.

I colori come i profumi sono “Esperienze sensoriali” e si sperimentano solo dal vivo …

Chi cerca/trova i tartufi? Un duo indissolubile “il trabuj” (cane addestrato alla ricerca del tartufo in dialetto piemontese) e il “trifulau” (cercatore di tartufi in dialetto piemontese).

Questo è il periodo giusto, le colline sono colorate di giallo e rosso in tutte le tonalità, ci sono i tartufi (le trifule) e ci saranno per una parte dell’inverno, c’è la “Fiera internazionale del tartufo bianco ad Alba” fino al 27 Novembre che richiama persone da tutti i continenti, qui cerchiamo di capire qualcosa del “trifulau” ora e la prossima del “trabuj”.

Giovanna

Il “mestiere” del Trifulau 

Fin da ragazzo, mi pareva che andando per i boschi senza un cane avrei perduto troppa parte della vita e dell’occulto della terra.
(“La casa in collina” di Cesare Pavese)

…. a quei tempi il mestiere di trifulau era praticato quasi esclusivamente da contadini, i quali, in autunno, al termine della vendemmia e della semina del grano, si dedicavano alla ricerca dei tartufi per guadagnare qualche soldo in più e magari per supplire ad una annata “grama”.

Questo mestiere non si poteva improvvisare: occorreva avere una buona resistenza fisica, per sopportare la fatica di lunghe camminate dopo una pesante giornata di lavoro, ma anche coraggio, per avventurarsi da soli, di notte, per valli e colline, dove si potevano fare brutti incontri.

Trifulau & cani

L’andar per trifule (tartufi) è anche un modo di vivere alcuni momenti in totale libertà, immersi nel silenzio della natura, in un periodo dell’anno in cui i colori e gli odori autunnali ti avvolgono; è appagante vedere il cane “lavorare”, ammirare la sua perizia nel muoversi con abilità e destrezza, fiutare il terreno, selezionare ogni odore e rispondere con prontezza ai comandi. È prezioso poter condividere tutto questo con l’amico inseparabile!

Il trifulau è un personaggio solitario, molto riservato, che vive un legame molto stretto con il suo cane e con la natura.

Durante la cerca, essi diventano una cosa sola e, ogni volta, si ripete un rito antico, fatto di sguardi, di gesti e di incitamenti, che esplodono in una gioia incontenibile e liberatoria al momento del ritrovamento del tartufo (trifula).

Trifulau & caniNormalmente il trifulau si muove di notte, per le condizioni atmosferiche più adatte alla cerca, perché il cane è meno disturbato, perché il buio e la nebbia proteggono da occhi indiscreti. E, quando c’è la neve, prima di avvicinarsi a un posto segreto, compie lunghi giri, lasciando orme in diverse direzioni, in modo da confondere gli altri cercatori, a volte simulando il ritrovamento vicino ad alberi che non producono trifule (tartufi)!

Il trifulau cammina con molta agilità e perizia, superando ogni tipo di ostacolo, conosce a memoria ogni fosso, ogni pendio. Sa quando crescono i tartufi, quali sono gli alberi che “li danno”, come trattare il suo cane e come ricompensarlo, e sa, infine, che un bel tartufo vale una fortuna!

Natale Romagnolo

Trifulau & cani

Alla Casa del Trifulau , potrete vivere l’emozione di “andar per tartufi” e partecipare direttamente al rito della ricerca del tartufo, in compagnia del Trifulau e dei suoi inseparabili cani.

Le parole scritte in corsivo sono in dialetto

Sanguinelli:
Lactarius deliciosus
(fungo)

A Detina piaceva andare a funghi, conosceva le loro abitudini, i giorni buoni e le piante sotto le quali nascevano. La stagione delle matote (boleti) era finita ed era stata gratificante: ne aveva messe via una bella scorta e anzi aveva dovuto preparare una damigiana più capiente. Arroventato un cerchio della stufa l’aveva posizionato alla base del collo della damigiana con le molle, il vetro si era staccato di netto e l’apertura era risultata liscia e sicura.

I funghi in damigiana si conservano in una salamoia, fatta con acqua- aceto-sale bolliti, usata solo fredda. Oggi Detina voleva andare per Tron (Sanguinelli) e stava calzando le scarpe consumate quando il cane legato in cortile abbaia con poco impegno. Significava che la persona che arrivava il cane la conosceva e infatti subito si sente la voce di Pinota  che chiede: è permesso? Ecco, addio funghi.

Poi però Detina decide di non lasciarsi sopraffare dagli eventi senza combattere e manda una delle figlie ricordandole ancora una volta le piante sotto le quali cercare. I Tron nascono sotto i pini e sono vivaci, colorati di arancione; nella parte inferiore hanno una sorta di corolla leggermente piegata come a formare un orlo.

Pinota era una donna tutta nera: vestito, grembiule, ciabatte, foulard, pelle del viso e unghie. La natura nei suoi confronti non si era impegnata più di tanto, non era vecchia ma aveva già le mascelle cascanti e due canini che sporgevano dalle labbra a mò di vampiro.

Pinota abitava in una casa bifamiliare ed era perennemente in lite con la coinquilina Angelina per via del pollame. Anche quella mattina, secondo Pinota, si era ripetuto il solito copione: quella masca (dispettosa) di Angelina era andata da lei a reclamare un pulcino. Pinota si era difesa: “i pulcini che sono sotto il grumet (una sorta di campana rovesciata fatta con rete metallica) sono tutti miei”. E Angelina: “adesso alzi il grumet e vediamo chi ha ragione”. Appena la nidiata era stata liberata Angelina aveva lanciato un “pio-pio” e il pulcino ingrato era andato da lei. Eppure Pinota al mattino aveva contato e ricontato i pulcini e non aveva riscontrato anomalie. Ma Pinota dimenticava spesso di aver frequentato per 4 anni la prima elementare, senza vedere nemmeno l’ombra della ammissione alla seconda classe.

Intanto che Pinota faceva il resoconto di quella mattina disgraziata, Detina aveva preparato la base per la bagna di Tron: un soffritto di aglio e prezzemolo, un cucchiaio di conserva e un pentolino di acqua con la quale accompagnare la cottura. Quando la figlia di Detina era tornata Pinota era ancora in cucina e Detina si era sentita in dovere di spartire a malincuore parte della raccolta: sospettava che l’avesse fatto apposta a tirare per le lunghe. Pinota andava a casa con “la bagna d’Tron”: il pranzo era pronto.

Detina si sentiva solidale con Angelina.

Marinella Bera
I nomi: Detina (Benedetta), Pinota (Giuseppina)

Il Vermouth è prodotto tipico del Piemonte, amato-conosciuto-consumato in questa regione soprattutto da solo come aperitivo nella versione Rosso e Secco (Dry), come piacevole bevanda a tutte le ore nella versione Bianco (semidolce, dolce) Ambrosia. La versione Vermouth Dry è conosciuta in tutta la terra, amatissima negli USA e con l’inserimento di una oliva verde e ghiaccio diventa l’arcinoto Martini Dry. Tutte le versioni sono utilizzate nella preparazione di cocktails attualmente ritornati di moda. I giovani lo conoscono poco e noi “maturi”? Siamo in grado di rispondere alle domande basilari:

Che cosa è il Vermouth e dove/quando nasce?
Come si produce?

Propongo di seguito una “galoppata” veloce di risposte alle domande di base per fugare gli imbarazzi, mentre per approfondimenti leggete ai link dei produttori che troverete più avanti..

Che cosa è il Vermouth, dove e quando nasce

Il Vermouth è un vino aromatizzato.

I vini aromatizzati hanno origini antichissime. Quattro secoli prima di Cristo i Greci veneratori di Dioniso riempivano otri di trimma, vino aromatizzato con erbe la cui ricetta è purtroppo andata perduta.
Plinio il Vecchio, naturalista latino nato nel 23 d.C. ci ha lasciato una lunga lista di vini aromatizzati a scopo curativo, mentre Marco Gavio Apicio più o meno nello stesso periodo ma con scopi diversi, nel De re coquinaria scrive del Conditum Paradoxum, vino cotto aromatizzato con miele e spezie, e del Absinthium Romanum, che conteneva oltre chiaramente all’Assenzio, datteri, foglie di Nardo, Zafferano e Mastice (resina del Lentisco).

Facciamo un lungo salto di una dozzina di secoli per arrivare ad Arnaldo da Villanova, medico spagnolo nato a Valencia nel 1240, consigliere di re e papi, che in un curioso libro dal titolo Liber de Vinis parla di una lunga lista di vini aromatizzati molto curiosi. C’è il Vino Cordiale, con Borragine, Melissa e spezie, che ripulisce il sangue e trascina via le cattive idee, il vino di Buglossa, che corregge il cervello compromesso dalla fumosità della malinconia, il vino d’Issopo che libera le vie aeree e il cui utilizzo regolare è adatto ai bambini, e ovviamente il vino d’Assenzio, i cui effetti benefici sul corpo e sullo spirito riempiono una pagina intera e si conclude così

Bisogna considerare che secondo la tradizione che riporta a Macrobio, ci fu un momento in cui si tenevano in così grande considerazione le piante di Assenzio che si dava da bere il loro succo ai capi degli eserciti prima della battaglia. Un buon presagio che assicurava salute e vittoria. Che Dio li conceda a sua Maestà il Re e a noi

Oltre a ciò, Arnaldo da Villanova chiarisce un punto fondamentale che va sottolineato: per fare un buon vino aromatizzato occorre partire da un buon vino base. Niente sciacquatura di botti, niente scarti di produzione, vino buono.

Veniamo ai giorni nostri, precisamente al 1786, quando Antonio Benedetto Carpano a Torino battezza il Vermouth prendendo il nome dal tedesco Wermut (Artemisia), e collocando quindi in Piemonte la nascita ufficiale di questa bevanda spiritosa.

Il Vermouth di Torino

Paesaggio di Torino (Mole)

Dal 2019 l’Unione Europea infatti riconosce il Vermouth di Torino (o Vermut di Torino) attraverso un vero e proprio disciplinare che è possibile scaricare dal sito eAmbrosia (registro delle indicazioni geografiche europee, dove potete trovare la colatura di alici di Cetara, il Melacotòn de Calanda e il Vermouth di Torino). Tra le altre cose scopriamo leggendolo che l’Artemisia (che deve essere presente almeno in 0.5g per litro di prodotto finito) deve necessariamente provenire dal Piemonte, e che dalla stessa regione deve provenire almeno il 50% del vino utilizzato nel caso in cui si voglia attribuire la menzione “superiore”.

Come si produce

  • Una mistura di erbe e spezie viene messa a macerare nel vino oppure in una soluzione idroalcolica. Talvolta vengono utilizzati anche ingredienti distillati.
  • Il prodotto della macerazione viene torchiato per estrarre il più possibile dalla materia prima.
  • Viene aggiunto il dolcificante (solo zucchero, miele o caramello secondo il disciplinare).
  • Vengono aggiunti vino ed alcool per la fortificazione e per impedire ulteriori fermentazioni.
  • Viene filtrato e fatto riposare.

Vermouth is therefore the end result of a recipe with a thousand variables: the base wine used, the spices and herbs, theIl Vermouth è quindi frutto di una ricetta con mille variabili: il vino base utilizzato, le spezie e le erbe, la quantità e il tipo di zucchero, la fortificazione più o meno spinta. Secondo me l’unico modo per capirci qualcosa è assaggiarne il più possibile!! Troppo lungo l’elenco dei produttori che comprenda artigiani poco noti e notissimi, medie-grandi aziende ben note, comunque etichette di ottimi prodotti, quindi segnalo alcune etichette che piacciono a me.

Produttori, Etichette e caratteristiche

  • Chazalettes, Extra Dry, Cocconato d’Asti:
    Bianco, naso di bergamotto, melissa ed erbe alpine, secco, agrumato, elegantissimo, lascia la bocca pulita e fresca. Servito da solo e senza ghiaccio è un grande aperitivo.
  • Chazalettes, Vermouth Rosso della Regina:
    Bellissimo rosso rubino, ciliegia e prugna fanno da sfondo alle erbe amare, alla china, poi chiodi di garofano, liquirizia e anche note balsamiche tra la menta e l’amarena. Bocca elegantissima, equilibrata, suadente, con una leggera nota pungente di pepe e liquirizia sul finale.
  • La Canellese, Vermut Bianco. Calamandrana:
    Realizzato esclusivamente con vino cortese. Naso dolce che ricorda il rosolio, floreale e delicato. In bocca è leggiadro, femminile. La parte amaricante è appena accennata. Una volta questa tipologia di Vermouth era destinata alle fanciulle.
  • Cocchi, Storico. Asti:
    Vino da uve moscato. Ambrato. Naso caratteristico di rabarbaro e china con rimandi da via della seta, arancia amara, macis e cannella. Bocca calda e avvolgente, buona struttura
  • Quaglia Distillery, Berto Superiore Rosso. Castelnuovo Don Bosco:
    Da Barbera (in maggior parte) e Moscato. Naso decisamente amaricante, di china e rabarbaro con un tocco di liquirizia e bocca a contrasto, leggermente dolce, di struttura decisa e finale su leggeri frutti rossi che rimandano alla barbera. Classico.
  • Carpano, Antica Formula. Milano (oggi gruppo Branca):
    Oggi la sede è a Milano, ma questa è la ricetta che Antonio Benedetto Carpano inventò nel 1786 a Torino. Erbe amare, caffè, rabarbaro, fa pensare ad una farmacia di fine ‘700. In bocca compensa una quota di caramello a bilanciare. Corposo e caldo, difficilmente passerebbe inosservato in qualsiasi cocktail.
  • Martini, Riserva speciale: Ambrato. Pessione:
    Da Moscato d’Asti. Color ambrato, floreale di camomilla e leggermente amaricante, contiene quattro diversi tipi di assenzio. In bocca è piuttosto leggero e coerente. Non eccelle in nulla ma con la tonica messa a disposizione per la degustazione è risultato uno dei migliori. Da cocktail.
  • Gancia, Vermouth Rosso. Canelli:
    Da una ricetta dell’800 un Vermouth dall’aroma classico di arancia amara e china. Giocato decisamente più sulle erbe che sulle spezie anche in bocca è piacevole, avvolgente e rotondo. Finisce agrumato. Buono anche da solo.
  • Tosti, Riserva Taurinorum Superiore. Canelli:
    Questo Vermouth si distacca in modo netto da tutti gli altri. Effluvio di spezie dolci orientali, ricorda tantissimo il tè di Natale. Anice stellato, vaniglia, cannella, coriandolo, noce moscata, scorza di arancia e tanto miele. In bocca sembra quasi un moscato passito. Da non perdere per chi ama le spezie e il Natale.
  • Calissano, Vermouth di Torino Rosso Superiore. Alice Bel Colle:
    Da uve Nebbiolo e Cortese di Gavi. Naso intenso di erbe amare, liquirizia, pompelmo e frutti rossi. Il Nebbiolo gli conferisce struttura e lunghezza con un ingresso in bocca dolce e aromatico che sfuma sulla liquirizia e sulla scorza di agrumi.
  • Vergnano, Vermouth di Torino Superiore. Moncalieri:
    Vermouth non troppo intenso, giocato più su note erbacee che speziate, non particolarmente dolce e nemmeno amaro, ha equilibrio e buona qualità. Scorre via leggero, non sai perché ma è già finito.
  • Del Professore, Vermouth Rosso. Piemonte:
    Questo Vermouth affina per un periodo variabile (qualche mese) in botti di legno prima della commercializzazione. Profuma di quegli scaffali di legno nei quali si riponevano le erbe medicinali, fiori di genziana, assenzio, agrumi e vaniglia, il tutto rinfrescato da una bella nota balsamica di menta. Strutturato ma non stanco in perfetto equilibrio dolce amaro, molto lungo, lascia la bocca fresca e piacevolmente amara, molto elegante. Non lo miscelerei con nulla se non un cubetto di ghiaccio nella stagione calda.

Buona scoperta o ri-scoperta del Vermouth di Torino! Il buon bere è CONSAPEVOLE cioè piccole quantità degustate lentamente.

Giovanna

La cucina “langhetta” è ben conosciuta dai professionisti e dagli appassionati, molto apprezzata da tutti quelli che hanno avuto la fortuna di sperimentarla.

La nostra cucina è caratterizzata dalla stagionalità delle materie prime, le più diverse erbe spontanee come diversa è la terra delle zone che compongono il territorio, il tutto sapientemente manipolato in secoli di esperienza in ciascuna famiglia che ha introdotto le variazioni che la rendono “unica”.
Come tutte le cucine tipiche nasce dai prodotti del territorio più poveri, compresi quei prodotti spontanei che si andava a cercare soprattutto nei boschi ma anche nei campi adibiti a pascolo o comunque non coltivati e quindi senza costo d’acquisto, dalla creatività e “dall’arte di arrangiarsi” delle donne che dovevano sfamare tante persone … e qualche volta con l’aiuto del caso.


Nei tempi passati andare a cercare funghi o tartufi, cogliere frutti selvatici, cercare erbe alimentari erano “passioni” o “passatempi” sia degli uomini che delle donne, ciascuno di loro aveva i propri “siti” di cui era estremamente geloso, quasi sempre per queste attività si sottraevano ore al sonno non certo al lavoro.
Ai tempi si vendevano molto raramente i frutti delle ricerche e solo quando erano davvero abbondanti, ciascun “cercatore” fierissimo dei risultati della sua passione li riservava alla propria famiglia, perciò nella nostra cucina molte sono le ricette a base di funghi porcini e ovuli, marmellate squisite di frutti selvatici e i tartufi di ogni stagione erano un complemento unico dei piatti della stagione. In questa situazione fiorivano rivalità e furbizie, da qui situazioni esilaranti e aneddoti che ho chiesto a Marinella Bera di raccontarci naturalmente assieme alle antiche ricette.
Al momento abbiamo: Il sugo di funghi, Il minestrone, Il fritto misto.

Marinella Bera ha la “passione” di cercare e conservare le testimonianze della nostra storia, storia forse minore ma di tutti noi e delle nostre famiglie, perderla ci priverebbe delle nostre radici. Grazie Marinella!

Buon divertimento!
Giovanna

Le ricette di Marinella

Bagna d ‘Tron: sugo di funghi Sanguinelli (Lactarius deliciosus)

Le parole scritte in corsivo sono in dialetto Sanguinelli:Lactarius deliciosus(fungo) A Detina piaceva andare a funghi, conosceva le loro abitudini, i giorni buoni e le piante sotto le quali nascevano.

Fritto misto alla piemontese

Le parole scritte in corsivo sono in dialetto Vai alla ricetta Ricordi Oggi a pranzo viene Sergio, un nipote di Vigina  e porta la morosa per farla conoscere agli zii

Il minestrone

Vigina, già di primo mattino, aveva messo sulla stufa una pentola con l’acqua e a mano a mano che la primogenita portava le verdure raccolte nell’orto

Consiglio di sperimentare le ricette, Marinella è disponibile a fornire consulenza. Ci piacerebbe molto conoscere i risultati, scriveteci!!

Le parole scritte in corsivo sono in dialetto

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Ricordi

Oggi a pranzo viene Sergio, un nipote di Vigina  e porta la morosa per farla conoscere agli zii e ai cugini. Sergio è il figlio di Teresina, una delle cognate di Vigina. Per alcuni anni le due donne, con le rispettive famiglie, avevano vissuto assieme.

Un incubo.

Le due cognate litigavano sempre: Vigina aveva tanti figli e un bell’esaurimento, il medico le aveva detto: “mangia tante uova fresche, appena le galline le fanno vai nel pollaio e bevile” ma Teresina si arrabbiava perché così facendo non si potevano vendere. I vicini, sogghignando, dicevano che nella casa delle due cognate i vetri non duravano più di una settimana.

Teresina aveva solo quel figlio che era cresciuto con i bambini di Vigina. Sergio era sempre ben vestito e a Natale riceveva da Gesù Bambino un sacchetto pieno di Marzapane a forma di frutta colorata, invece i suoi cugini ricevevano in dono dei confetti bianchi e rossi. Il mattino di Natale i bambini barattavano i dolci, ma Sergio pretendeva per ogni frutto di marzapane due confetti.

Uno schifoso come la madre.

Comunque per il pranzo non si potevano fare figuracce e per di più la morosa veniva dal paese natale di Vigina. Era necessario preparare il fritto misto: era il piatto forte della casa, da poco avevano ucciso il maiale, molte delle portate del fritto sono a base di carne di maiale. 

Ricetta

Il fritto misto piemontese ha trentasei portate: dodici dolci, dodici salate, dodici a base di verdure ma ben pochi lo fanno ancora così ricco. Non è un piatto particolarmente difficile forse il componente più impegnativo è il semolino dolce: si prepara con latte zuccherato e un pizzico di sale grosso, quando il liquido inizia il bollore si versa adagio la dose di semolino. Ancora due minuti di cottura e lontano dal fuoco si aggiunge un tuorlo e limone grattugiato.  In un piatto da portata piuttosto ampio e unto d’olio si versa il semolino, deve riposare alcune ore e quindi tagliato a rombi. 

Nel fritto misto che Vigina prepara ci sono le bistecche di vitello e le braciole di maiale impanate, le animelle e il cervello prima lessate, il fegato, la salciccia, il polmone tagliato a fette e fritto senza impanatura.

Le fette di mele sono passate in un composto liquido fatto con farina bianca, tuorlo, latte e zucchero; gli amaretti si ammorbidiscono intingendoli prima nel latte e poi impanati. 

La sera prima Vigina aveva lessato un cavolfiore e alcuni finocchi che impanati finiscono in padella; le carote cuociono in un pentolino con olio, sale, zucchero, una noce di burro e una foglia d’alloro.

L’unica verdura veloce da preparare sono le fette di limone che servono a sgrassare.

Uno dei componenti più difficili del fritto sono le frise, una sorta di polpette di lunga preparazione: in una pentola con acqua insaporita da sale e foglie di alloro si mettono a cuocere il fegato nero e il fegato bianco (fegato e polmone), la milza e i reni. Tolta la pentola dal fuoco si tritano le frattaglie e si arrichiscono con latte, pangrattato, amaretti, pasta di salsiccia, noce moscata. Per lavorarle più facilmente si avvolgono nella rissola (omento) tessuto adiposo e molto vascolarizzato.

Assaggio

Il fritto misto caldo, saporito, abbondante è stato un successo, Vigina lo sapeva: era uno dei suoi cavalli di battaglia.

La morosa di Sergio è una bella ragazza, anche lei figlia unica, idolatrata dai genitori: si racconta che ogni mattina il padre le dica: ”Aspetta prima di uscire di casa, vedo se fa freddo e se è il caso che tu ti vesta conseguentemente”.

Quando sarà sposata chi farà da barometro?
Dio li fa e poi li accoppia.

Marinella Bera
I nomi: Vigina (Luigina)

Le parole scritte in corsivo sono in dialetto

Il minestrone, che buono!

Vigina, già di primo mattino, aveva messo sulla stufa una pentola con l’acqua e a mano a mano che la primogenita portava le verdure raccolte nell’orto. Vigina e le figlie più piccole le lavavano e le affettavano.
Nella pentola stavano già cuocendo le patate, non era ancora ora di togliere i tuberi e infatti ne avevano sacrificato solo una pianta. Adesso tagliavano a fettine sottili una grossa cipolla, gliele aveva portate suo fratello Giuvanin che faceva il commerciante di bestie e andava a comprare i vitellini nella piana per rivenderli ai contadini che avevano delle mucche da latte. All’inizio della Primavera Giuvanin passava dai fraticelli di Bra e prendeva i cipollotti, li prendeva così presto perché i frati gli avevano insegnato che queste verdure era meglio trapiantarle ad Aprile quando erano “grosse pej d’in fi”(grosse come un fico) che a Maggio già grosse come il braccio.

Adesso era l’ora dei fagioli, una delle verdure che richiedono meno lavoro, basta liberarli dal baccello e ripulirli dalla pellicola che li ricopre. I fagioli erano stati seminati nei filari della meliga (granoturco) così i germogli avevano un tutore a cui avvolgersi per resistere ai venti e ai temporali.

Le carote non erano venute bene quell’anno, Giulia, invece, ne aveva un solco molto lungo e fitte come i capelli in testa e ne cedeva volentieri un cavagnin (cestino piccolo) a Vigina in cambio di due dozzine di uova gallate (fecondate) da mettere in cova. Per andare nel filare dove crescevano le carote, Giulia si era messa le scarpe da festa. Ritornata a casa le avrebbe messe sul davanzale della finestra di cucina, era un trucco per ingannare lo suocero: quella mattina Giulia non era andata a messa. Tutte le feste il padre di suo marito veniva su dalla valle dove abitava e per prima cosa ispezionava le scarpe, se non erano impolverate significava che la famiglia del figlio non era andata a messa.

Il marito di Giulia era arrabbiato con il padre per questa imposizione: in famiglia conoscevano le tante debolezze dell’uomo che spaziavano dalla poca voglia di lavorare alle attenzioni verso le nuore più giovani. I figli lo chiamavano “il crin (maiale) cattolico”.

Dopo che Giulia era andata via con le uova arrotolate nel grembiule, nel pentolone erano finite le verdure che cuociono più in fretta: gli zucchini, un grosso pomodoro e un ciuffo di basilico per profumare, il basilico è l’Estate.

Ora doveva cuocere a fuoco vivace per almeno due ore; prima di portarlo in tavola Vigina vi grattugiava un pezzo di robiola stagionata.

“Moderno” putagè

Tutte le famiglie a Trezzo Tinella preparavano sovente il minestrone, a volte vi aggiungevano le tagliatelle fatte in casa altre volte il pane raffermo. Chi preparava un ottimo minestrone era la madre di Tumò, lo metteva su all’alba, a mezzogiorno era denso, legato, profumato. Il figlio si sedeva e si serviva: ogni volta che riempiva il piatto metteva sul tavolo un fiammifero, il pallottoliere casalingo lo avvertiva quando era ora di smettere.

La gola è peccato.

Marinella Bera

I nomi: Vigina (Virginia), Giuvanin (Giovanni), Tumò (Tommaso)

I componenti  della famiglia Bera, secondo me, presentano tutte le caratteristiche dei Langhetti: originali, creativi, avventurosi e radicati profondamente nella terra, lavoratori tenaci e amanti del buon vivere, aperti alle nuove conoscenze e testimoni delle tradizioni, riservati e disponibili, ciascuno di loro contribuisce a costituire l’insieme di una famiglia forte e dinamica.

La cantina è creazione recente di questa generazione, è giovane più del più giovane dei Bera, era sogno della generazione precedente ora realizzato, da far crescere e affermare. La cura dedicata alle vigne finalmente si manifesta e conclude nella produzione dei vini (altrettanto seguiti) che a me piacciono molto, ad esempio da loro si trova il Dolcetto invecchiato straordinario e raro.

La loro cucina è buonissima, vi consiglio di sperimentarla mentre acquistate il vino!

Giovanna


Il Bosseto: la cantina della famiglia Bera

La famiglia

Il cognome Bera pare derivi dall’ inglese Bear (orso) si ha notizia di una famiglia nobile calata in Italia intorno all’ anno 1000, al seguito delle invasioni barbariche: proveniva dal nord Europa forse dalla Germania o forse dall’ Inghilterra e il suo stemma era appunto un orso, simbolo di potenza, fierezza, astuzia ma anche di crudeltà di durezza e di regalità: fino all’800 era l’orso il re degli animali. Un embrione di questa famiglia si è sviluppato nelle Langhe e noi deriviamo da esso: siamo due fratelli, due sorelle e la mamma accomunati dall’ amore per la terra, la vite e il vino.

L’azienda vitivinicola Il Bosseto

Il Bosseto

Prende il nome dal bosso, un arbusto spontaneo dell’area mediterranea, è un sempreverde con delle piccole foglie ovali lucide e profumate. Il bosso è elemento fondamentale sia dei “giardini all’italiana o giardini formali” caratterizzati da forme geometriche sia “dell’arte topiaria” che realizza figure animali o comunque ricche di particolari complessi, ottenute con sapienti potature dell’arbusto e costante cura. Un esempio tra tutti sono i giardini del castello di Boboli a Firenze, molto in piccolo ce ne sono tracce anche intorno ai castelli delle Langhe (Govone, Serralunga, Magliano Alfieri), un tempo circondava anche le vecchie chiese ed era utilizzato come siepe per delimitare gli spazi nei giardini- orti dei monasteri. L’ azienda è in effetti è collocata nello spazio dove un tempo esisteva un potente Monastero dedicato a S. Alessandro.

Il bosso è un arbusto che cresce lentamente, è paziente e tenace, qualità che noi apprezziamo e cerchiamo di fare nostre.

L’azienda

è situata tra il confine di Trezzo Tinella e Treiso ed è quasi interamente coltivata a vite. La maggior parte degli impianti sono recenti e nel predisporli abbiamo cercato di lasciare piante e arredi esistenti per rispetto verso chi ci ha preceduti e per non impoverire ulteriormente il paesaggio. Nelle vigne esistono piante di pere Madernassa, mele antiche, muriche, pesche a pasta bianca; ci sono ancora i grandi tini in cemento che servivano per miscelare il verderame con la calce e i pozzi scavati nel tufo che fornivano l’ acqua alla famiglia; ci sono alcuni muretti in pietra e la sota: un piccolo stagno dove si allevavano le carpe. Le vigne sono circondate dalle rocche, i calanchi tipici delle Langhe dove crescono querce, gaggie (robinie), olmi e pini. Il Bosseto è orientato verso una coltivazione biologica, da anni non usiamo più diserbanti e i trattamenti sono a base di verderame e zolfo per  coltivare i vitigni tipici di questa zona: Moscato, Dolcetto, Nascetta

I nostri vini: particolarità, aneddoti e ricordi.

Il Moscato

MoscatoFino a pochi anni fa non aveva la popolarità che ha adesso ma la nostra famiglia lo ha sempre coltivato: i nonni paterni provenivano da Castagnole e da Castiglione Tinella, paesi nel quali questo vitigno è sempre stato presente. Uno dei nostri ricordi da bambini è legato al succo dolcissimo che filtrava lento dai sacchi olandesi. Si cominciava a filtrare pochi giorni dopo della vendemmia, verso la fine di ottobre e più l’ uva era dolce e più il mosto aveva bisogno di essere filtrato. I sacchi olandesi si intasavano sovente e così le donne, dopo cena uscivano nell’ aria frizzante e ventosa di metà autunno e li lavavano in grandi mastelli vicino alla cisterna. Il Moscato si beveva soprattutto in estate o in occasioni particolari come quando veniva il parroco a benedire, le poche famiglie del paese che lo producevano garantivano alle due parrocchie il vino per le celebrazioni dato il basso contenuto alcolico.

L’appezzamento di vigne Moscato è stato impiantato nel 1953 con i filari stretti che a malapena ci passava un bue: non amiamo sentircelo dire ma a volte rasentiamo il masochismo, poiché tutti i lavori debbono essere svolti manualmente non essendoci abbastanza spazio – tra un filare e l’altro – per il trattore.

Ora noi produciamo vino Moscato D.O.C.G.( Denominazione di Origine Controllata Garantita)  detto a tappo raso per distinguerlo dallo spumante, e abbiamo chiamato Ambrosia quello ottenuto da un mosto di uve stramature… l’ abbiamo chiamato Ambrosia come era chiamato il nettare degli dei.

Il Dolcetto

DolcettoE’ un vitigno autoctono delle Langhe e del Monferrato, a bacca rossa e le sue D.O.C. ( Denominazione di Origine Controllata)  prendono il nome dalle zone di coltivazione, ad esempio Dolcetto d’Alba, Dolcetto di Dogliani. È un’ uva delicata, difficile, esigente sia in vigna che in cantina. Il nome è ingannevole probabilmente gli deriva dal sapore degli acini, quelli sì, dolci e zuccherini. Il Dolcetto è un vino elegante, appagante, un vino a tutto pasto. A metà del secolo scorso era il vino più apprezzato, amabile, meno impattante e corposo del Barbera. Nelle famiglie di questa zona i parti avvenivano in casa e dopo il lieto evento si festeggiava sempre con un bicchiere di Dolcetto e anzi sei il nato era un maschio che garantiva la continuazione del cognome, arrivato magari dopo una o due femmine, era lo suocero che lo offrirà alla nuora. Quando i particolari (ITALIANO?), in Primavera venivano a comprare le damigiane di Dolcetto da imbottigliare nella luna nuova di Marzo, pretendevano il pranzo a base di bollito abbondantemente accompagnato dal Dolcetto dell’annata precedente.

Il Bosseto produce un Dolcetto novello e uno invecchiato. L’uva del Dolcetto sovente ha problemi di cascola: una volta non si sprecava niente e i vendemmiatori prima di recidere Il grappolo si cautelavano usando la votazza dove far cadere gli acini che si staccavano. Ai bambini veniva comandato di ripassare il sotto-fila e salvare il poco che era rimasto: gli infelici confidavano nelle galline.

Il Nascetta

NascettaE’ un vino bianco dal un gusto minerale, era già presente su queste colline coltivata con altri vitigni a bacca bianca, , magari col Timorasso, il Malvasia, e il Livertiin così aspro che le massaie dell’alta Langa lo usavano al posto del Caglio, per anni queste uve sono state pigiate assieme così quando si è scoperta la potenzialità di questo vitigno nessuno più ricordava come si doveva vinificare.

Oggi sono pochi gli agricoltori che lo coltivano: di terra per impiantare nuovi vigneti non ce n’è più.  Ogni produttore, ora, vinifica in modi diversi: sul mercato ci sono Nascetta diverse tra di loro e questo è un valore aggiunto.

Informazioni tecniche dettagliate http://www.ilbosseto.it/

Merenda “sinoira”

Ora le Langhe sono una terra invidiata dal mondo per i vini, il tartufo, le nocciole, il paesaggio, ma fino agli anni ‘70 la realtà economica di questi paesi era ben diversa, tutte le famiglie allevavano, maiali, polli e conigli e avevano bisogno di prati e di grano. I prati si falciano soprattutto d’Estate, il grano si miete solo d’Estate e l’Estate era la stagione più faticosa, il lavoro manuale era tanto e gravoso. le persone che lavoravano nei campi sfruttavano tutte le ore di luce e per sostenersi avevano bisogno di cibo.  La “massaia” dedita a sorvegliare i bambini e le covate, a metà pomeriggio preparava il cestino e lo portava agli uomini e alle donne che sudavano nei campi. Queste “merende sinoire” erano consumate più tardi di quelle canoniche ed erano a base di cibi sostanziosi, abbondanti e facilmente reperibili.

Noi avevamo il vino Moscato e le uova, la nonna preparava uno zabaglione freddo: in una ciotola sbatteva i tuorli di 10 uova con lo zucchero, a questa crema arancione aggiungeva le chiare montate a neve e ci versava dentro una bottiglia di Moscato fresco. Ogni presente aveva diritto a una scodella nella quale intingeva le fette di pane, dopo la merenda i lavoratori riprendevano le loro mansioni fino al crepuscolo ora di cena. Ora ai clienti che vengono in Cantina riproponiamo queste merende per ospitalità, perché i vini sono legati a doppio filo ai prodotti del territorio, perché il cibo rinsalda conoscenze e rafforza i legami. I piatti sono quelli tradizionali: minestre, gnocchi, marmellate, uova in carpione, friciulin (frittelle di patate), frittate con erbe selvatiche, bagnet (salse) e bunet (budino).

Venite a trovarci, vi aspettiamo!

Marinella Bera

Le Cattedrali Sotterranee … del vino?

Ci sono cattedrali sotto gli occhi di tutti perché le loro guglie puntano al cielo, Milano, Colonia, Westminster …, e ve ne sono altre che si sviluppano sottoterra e se non te lo dicono e se poi non scendi e vi entri proprio non le vedi. Succede a Canelli nell’Astigiano, capitale dello spumante italiano da quando nel 1850 Carlo Gancia vi importò il metodo “champenoise” dalla Francia.

Recentemente ribattezzate “Cattedrali Sotterranee”, poiché presentano: navate – deambulatori – transetti e si aprono in ampie crociere proprio come le Grandi Cattedrali costruite in superficie, sono autentici capolavori di architettura realizzati in mattoni a vista dentro il tufo delle colline.

La loro spettacolare bellezza, la loro unicità e storicità, composte da gallerie, cunicoli, lunghi corridoi e ampie volte valorizzate da un sapiente gioco di luci che sottolinea il monumentale lavoro di scavo e mette in risalto, in alcuni punti, il tufo di Canelli.

Edificate con ogni probabilità a partire dal XVIII secolo come piccole cantine di conservazione, rimaneggiate e ingrandite nel corso dei secoli fino alle ristrutturazioni e alle sistemazioni moderne, si sviluppano nel sottosuolo di Canelli. Le cattedrali, 15 chilometri di gallerie che arrivano fino a 40 metri di profondità, sono state strappate al tufo per conservare i prodotti della terra, ma anche il sale e tutto quello che viaggiava sulla via per Savona e Vado Ligure, storici sbocchi al mare di Canelli che fungeva da snodo commerciale.

Il vino nel tempo ha presto preso il sopravvento su tutto, il tufo calcareo di Canelli è un prezioso alleato: duro da picconare e incredibilmente stabile, funge da perfetto isolante termico, mantenendo un’umidità costante e una temperatura tra i 12 e i 14 gradi, condizioni ideale per l’affinamento dei grandi vini. Per questo, a partire dalla seconda metà dell’800 e durante i primi anni del XX secolo, sotto la città di Canelli vennero scavati diversi chilometri di gallerie. Nelle gallerie non avveniva soltanto lo stoccaggio e l’affinamento dei vini, ma l’intero processo di vinificazione i cui resti (presse, sistemi di filtraggio, tini, botti, macchinari) sono ancora oggi visibili a tangibile ricordo di un tempo passato.

In alcune di queste Cattedrali-cantine (ricordiamo che l’oscurità durante le delicate e lunghe fasi di lavorazione protegge il vino) si producono ancora oggi i più prestigiosi Spumanti con il Metodo classico, a me è capitato durante una visita e può succedere anche a voi di vedere “il cantiniere” lavorare su ogni singola bottiglia (sono molte migliaia) alloggiata nelle “pupitres”, in sintesi le lavorazioni che si svolgono in questi ambienti:

In summary, these are the main stages that are carried out in the production of the wine:

  • le bottiglie vivono la prima fase della loro permanenza in cantina con la “presa di spuma”, quando il vino acquisisce dalla fermentazione il “perlage” e la complessità del bouquet.
  • In seguito le bottiglie vengono trasferite sulle “puprites”, i cavalletti di legno diventati il simbolo del Metodo Classico. Qui ogni giorno il cantiniere ruota di un quarto di giro ogni bottiglia e la inclina lievemente verso l’alto perché i sedimenti si depositino nel collo.
  • Il processo continua con il “degorgement” in cui viene delicatamente tolto il tappo della bottiglia per eliminare il sedimento e nell’ultima fase viene aggiunto il “liqueur d’expedition”, un dosaggio segreto di vini, zucchero di canna e altri ingredienti, che danno l’impronta di stile a ciascuno di questi spumanti.

Le “Cattedrali Sotterranee”,  per la loro bellezza e importanza, sono state riconosciute dall’UNESCO come patrimonio mondiale dell’umanità, nell’ambito dei “Paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe – Roero e Monferrato”.

Vi suggerisco di sperimentare di persona la magia di questi luoghi unici e incantevoli!

Al momento sono visitabili su appuntamento:

Sito Prenotazioni
BOSCA cantine@bosca.it
CONTRATTO visite@contratto.it
GANCIA franco.ferrero@gancia.it
COPPO www.coppo.it/cantine

 

Buona visita e degustazioni!

Giovanna

Sono andata ad assistere al rito dell’Accensione del 73° Fiammifero sotto l’alambicco a fuoco diretto nella
distilleria Levi a Neive. Tante emozioni e sollecitazione dei cinque sensi!
C’era proprio tutto: la magia del luogo, il rito del fuoco, la banda, le poesie e i disegni di Romano Levi, le
etichette delle grappe che lui disegnava singolarmente e spesso dedicava, le cose buone da assaggiare…Da
qui il desiderio di far conoscere questa straordinaria realtà alle tante persone speciali che leggono il nostro
blog.
Buona lettura e un brindisi “virtuale” con le grappe della distilleria Levi!
Giovanna

La Donna Selvatica delle Langhe e le grappe di Romano Levi

Il Comune di Neive si trova al centro della strada Romantica di Langa, il più articolato con i suoi 100
chilometri dei percorsi per scoprire questa terra affascinante. Un territorio che custodisce tradizioni antiche,
come quella della leggendaria Donna Selvatica. Un’immagine che riconciliava nella figura femminile il
conflitto tra uomo e natura, al confine con la mitologia e reso poi celebre oltre ai confini delle Langhe dalle
etichette disegnate dal “ Grappaiolo angelico” Romano Levi di Neive.

La Donna Selvatica

Un antico racconto della Salige descrive le Donne Selvatiche delle Langhe come “figure ricorrenti nelle
saghe dell’arco alpino, che rappresentano le radici più profonde, corporee e istintuali del femminile:
l’archetipo di una natura libera e selvaggia, incontaminata dal disagio della civiltà”.
La “Donna Selvatica” si caratterizzava, all’interno della società contadina delle Langhe, come portatrice di
una cultura che affondava le sue radici nella notte dei tempi, in stretto contatto con la natura e i suoi
segreti, con i mestieri legati alla stagionalità, con la saggezza dei vecchi che si inframmezzava con la
religiosità popolare e scaramantica.
Nell’immaginario collettivo delle Langhe la figura della “Donna Selvatica” è sempre stata forte e presente:
una donna difficilmente inquadrabile nelle convenzioni sociali dominanti, per nulla attenta alle apparenze e
restia al conformismo imperante nelle campagne; una donna indipendente, fiera, autonoma e in grado di
badare a se stessa e, il più delle volte, agli altri; una donna, quindi, archetipo delle difficoltà e delle gioie,
degli stenti materiali e delle ricchezze spirituali della vita contadina immutata nei secoli.
Il mito di Donna Selvatica è stato poi ripreso e reso famoso da Romano Levi, produttore artigianale di
grappe d’autore, poeta e disegnatore di etichette, una celebrità a Neive. Per lui le Donne Selvatiche sono
visioni, ricordi del passato, di quando andava a scuola a piedi e sfiorava per strada “donne belle e
scarmigliate, un po’ pazze, un po’ streghe, un po’ fate”.

Romano Levi le racconta così le “Donne Selvatiche”

“Da ragazzino andavo a scuola attraversando le vigne. Tra i filari c’erano spesso “ i ciabòt”,
minuscoli ripari dove i vignaioli e i contadini si rifugiavano… Io passavo di lì al mattino e a volte
vedevo sbucare da questi ripari donne belle e scarmigliate, un po’ pazze, solitarie, che vivevano
spesso ai margini della società paesana. Erano misteriose, senza vincoli, sparivano e poi
tornavano, un po’ streghe e un po’ fate.
Erano libere, come dovrebbero essere tutte le donne per vivere la parte migliore della vita”.
Le grappe di Lidia e Romano Levi

“Faccio grappa: il sangue di fuoco, i morsi di vita, la poesia sono tuoi.”
Romano Levi

Per oltre sessant’anni, i fratelli Lidia e Romano Levi, continuando la tradizione dei loro antenati, hanno
prodotto una Grappa unica, a tutti nota come “La Grappa della Donna Selvatica”. Non è solo un distillato di
vinacce, ma anche l’arte espressa da Lidia nelle composizioni di erbe immerse nelle bottiglie o da Romano
nelle etichette poetiche, disegnate a mano.

“La Donna Selvatica scavalica le colline” – “La Donna Selvatica scavalica tutti i confini”
Romano Levi

Le grappe riescono superbe e lui fa la ‘riverenza’ nelle etichette che scrive con certosina sapienza a
mano, e che dedica. I nomi fermano nel tempo il suo fantastico amore a Donne decorose e indecorose,
selvatiche, ascendenti e discendenti, che scavalicano colline, che si lasciano toccare e non, coi capelli
d’oro d’argento”. Luigi Veronelli (enologo, cuoco, gastronomo, e scrittore)
http://www.lacucinaitaliana.it/storie/luoghi/luigi-veronelli-cucina-vino-olio-storia/

La casa-distilleria dei Levi, è oggi un Museo vivo e produttivo della Grappa, una vera e propria isola del
tempo, in cui il Genius Loci di Romano Levi, aleggia ovunque nell’arte, nei modi e nei tempi di lavoro, negli
oggetti semplici ed essenziali, nei profumi e nella serenità.
http://www.distilleriaromanolevi.com/romano-levi/#la-distilleria
http://www.distilleriaromanolevi.com/romano-levi/
https://www.facebook.com/DistilleriaRomanoLevi

RENZO “Il cestaio delle Langhe”

Premessa

Nel passato i cestini erano molto usati dai contadini delle Langhe, servivano per gli usi più molteplici: per la raccolta di cereali-ortaggi-frutta, contenitori di legna, contenitori di uova…quasi tutti (durante i lunghi e innevati Inverni) li costruivano per gli usi della famiglia, alcuni dotati di “estro creativo” alternavano colori/fogge/decorazioni/finiture ma restavano oggetti di uso pratico e quotidiano.

Amo i cestini da una vita, li compero e li uso anche se quando si rompono o consumano mi dispiace, poi ne trovo altri…
Ho avuto la fortuna di conoscere Renzo recentemente, fare qualche acquisto e invitarlo alla Cascina Bricchetto per una dimostrazione a noi e ai nostri ospiti.

Renzo

Il cestaio delle LangheRenzo bambino guardava per ore il nonno che creava cestini di salice per gli usi della famiglia, desiderava diventare bravo come lui ma come diceva il nonno bisognava sia costruirne tanti sia possedere l’estro artistico.
Renzo, guidato dal nonno, aveva iniziato a costruire i cestini ma l’occasione di un lavoro sicuro lo aveva portato in giro e allontanato dai cestini. Di tanto in tanto ripensava ai cestini con rimpianto e si diceva che un giorno avrebbe ripreso in mano i salici e provato a costruirli.
Gli anni sono trascorsi veloci, i figli cresciuti sono andati per la loro strada,finalmente con l’arrivo del pensionamento Renzo può dedicarsi ai cestini, fortunatamente la forma fisica è eccellente e la moglie disponibile a collaborare.

A partire dal mese di Gennaio Renzo e la moglie Silvana percorrono le Langhe alla ricerca dei salici,cercano il tipo di colore giallo e quello di colore verde,e di quelli color marrone diverse tonalità…inoltre i rametti debbono avere diametri diversi per le diverse parti del cestino e lunghezze diverse per le diverse dimensioni del cestino.
I rametti debbono essere conservati con la corretta umidità per essere lavorati, se seccano non sono più flessibili e si buttano via, una parte del raccolto si deve scorticare per avere il colore bianco…
I nostri coniugi si godono le camminate all’aria aperta nei meravigliosi territori delle Langhe con qualche sosta nelle Osterie ad apprezzare i cibi della tradizione locale, a casa prova e riprova imparano a preparare e conservare innanzi tutto “la materia prima” quindi Renzo – attingendo ai ricordi dell’adolescenza – tenta la fabbricazione…ma non riesce, c’è qualcosa che non ricorda o le dita si sono indurite troppo per guidare i recalcitranti salici o mancano degli attrezzi?

Renzo e Silvana si informano e trovano qualche vecchio che costruisce i cestini,
loro pensano che saranno contenti di insegnare “l’arte cestiaria” affinché venga tramandata ai giovani anziché sparire con loro, ma i primi contatti sono una delusione: vengono respinti. I nostri non demordono, resi prudenti dall’esperienza, si limitano a guardare con molta attenzione il modo in cui i vecchi artigiani eseguono il cestino. A casa prova e riprova, a volte il lavoro riesce, a volte è bloccato e allora si ritorna a guardare con la massima attenzione a quello specifico passaggio. In questa fase Silvana si rende conto che occorre una certa quantità di forza che lei non ha, continua a collaborare con Renzo e scopre la passione per la fotografia naturalistica che eserciterà durante le camminate alla ricerca dei salici.

Oggi Renzo e Silvana collaborano ancora ma è Renzo che ha l’estro creativo e la capacità tecnica, ciascun cestino è unico come ho cercato di dimostrare nelle fotografie eseguite durante la sessione realizzata qui alla Cascina Bricchetto.
Renzo sarà lieto di mostrarvi le sue creazioni anche qui da noi.

Giovanna

 

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Tel: +39 0173 630395
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Benvenuti

Ogni mattina aprendo le imposte esclamo: "bellissimo il Monviso con il sole, oppure stupendo questo cielo nuvoloso, o magico il mare di nebbia, o ancora fiabesca la nevicata" e la sera nel rinchiuderle – vedendo nelle colline di fronte le luci dei paesi (Diano d'Alba, La Morra ecc.) e le luci delle case sparse nelle colline – ringrazio la buona stella che mi ha condotto fin qui, dove la bellezza ti avvolge. (Leggi tutto)

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